Dott. Roberto Barbiani
Ricerca libera
18-10-2024

#5


43) Se è ancora lecito parlare di natura umana - provvista di caratteristiche simili a prescindere dalla diversità di usi, costumi, linguaggi, abitudini, aspettative, ecc. - allora bisogna parlare di complessità, di coesistenza di contraddizioni, di paradosso, di discontinuità e intermittenza, di andirivieni spesso incoerente e contorto, piuttosto che di divenire lineare ed evolutivo, di andamento disforico e instabile dell′emotività, cioè di ′discese ardite e risalite′, in un processo - sempre instabile e precario - nel quale l′equilibrio e la sintonia sono spesso obbiettivi difficili da raggiungere e da mantenere. Il tema della supposta esistenza di una natura umana identica, nonostante le diversità culturali e antropologiche, rimanda alla questione, tuttora irrisolta, dell′identità e del suo sgretolarsi nel corso del Novecento. Il riferimento più efficace per definire in modo appropriato la situazione di messa in discussione dell′identità monolitica e autoreferenziale, rimane, come accennato nel punto 34, l′emblematico titolo dell′ultima e sofferta opera di Pirandello ′Uno, nessuno, centomila′. Come Vitangelo, il protagonista del romanzo, ciascuno di noi potrebbe sottoscrivere la conclusione cui lui arriva, quella cioè di essere allo stesso tempo ′uno′ (vale a dire l′immagine che lui ha di sé stesso), ′centomila′ (come le identità che gli vengono attribuite dagli altri) e, in definitiva, ′nessuno′ (perché la consapevolezza che lui ha di sé stesso non coincide con l′idea che gli altri hanno di lui e non sapendo quale sia quella più appropriata, ne sceglie una, quella che non lo costringe ad essere qualcuno e che gli consente - povero e creduto pazzo da tutti - di essere nessuno, di rifiutare ogni identità, di rinnegare il suo stesso nome, di abbandonarsi allo scorrere puro dell′essere e di disgregarsi nella natura, vivendo attimo per attimo senza cristallizzarsi in nessuna maschera: ora è nuvola, ora è vento, ora albero).

44) Probabilmente è solo una questione di zeitgeist: il concetto che il disordine, l′imprevedibile, l′incerto, il caso possano costituire gli ingredienti e i motori dell′esistenza nei suoi spesso imprevedibili sviluppi e cambiamenti (come è stato finora argomentato nei punti precedenti), trova una corrispondenza nel principio esposto da Nassim Taleb nel suo libro: ′Antifragile. Prosperare nel disordine′. Una frase emblematica, contenuta nel saggio, è: "Qualunque cosa tragga più vantaggi che svantaggi dagli eventi casuali (o da alcuni shock) è antifragile; in caso contrario, è fragile". L′antifragile si caratterizza per la reazione nei confronti di un evento stressante o traumatico, consistente nell′atteggiamento di farlo proprio e sfruttarlo per il proprio tornaconto, diventando più forte e traendo vantaggio dalla situazione di crisi. Antifragile è stato Odisseo quando è riuscito, con l′astuzia, a liberare sé stesso e i suoi compagni dalla caverna, in cui li teneva rinchiusi il ciclope Polifemo. L′approccio positivo verso l′imprevisto e l′instabilità non costituisce però una reazione diffusa e frequente; di fronte al pericolo e all′instabilità le persone generalmente rispondono con la paura e con il panico. Il concetto di antifragile invita invece ad accogliere l′incertezza, ad allenarsi a resistere agli imprevisti, sull′esempio del sistema immunitario, che reagisce ai fattori di stress, sviluppando difese in grado di rendere l′organismo più capace di affrontare i successivi attacchi da parte di agenti patogeni. Questo atteggiamento non è mai stato un fenomeno di massa; è appartenuto a gruppi ristretti, appositamente selezionati e storicamente emersi in ogni tipo di società, come i cavalieri della Tavola Rotonda o i samurai giapponesi.

45) Azzardando un paragone, che non tiene conto della specificità storica, si potrebbe mettere a confronto il modello degli antifragili con quello antico-greco degli ′aristoi′. In questo contesto il termine ′àristos′ viene usato nel significato etimologico di migliore, niente a che vedere con aristocratico, nel senso di appartenente per diritto di sangue a una famiglia nobile. Platone nella Repubblica assegnava agli ′àristoi′ il governo della città, perché - liberi da incombenze militari, famigliari o commerciali - potevano dedicarsi al ′fìlos′-′sofé′, all′amore per il sapere e quindi al governo della città! Il potere dei migliori, il potere aristo/cratico - nel significato platonico del termine - non si è mai realizzato nella storia, perché quello degli ′àristoi′ rimane un fenomeno elitario, vincolato, non tanto a una nobiltà di condottieri militari o di proprietari terrieri, quanto a un percorso di ricerca, di disciplina e di abnegazione, che non potrà mai convertirsi in fenomeno di massa. E anche perché questo percorso di ricerca ben difficilmente potrebbe essere attratto dalla politica, dal governo della città, se non in quei rari periodi storici, in cui la politica riesce ad accendere passioni e speranze, che trascendono la dimensione amministrativa del governo della città, in quanto annunciano prospettive di cambiamento rivoluzionario nei rapporti di forza e nella gestione del potere.

46) Passando a riflessioni di tutt′altro genere, in considerazione anche del fatto che la gestione del potere non verrà mai affidata a un′élite di antifragili o di ′aristoi′, appare stimolante approfondire un argomento concepito in un contesto storicamente e geograficamente agli antipodi: il concetto, di origine taoista, del ′non agire′. A questo proposito è necessario, in via preliminare, porci una domanda: è concepibile o addirittura immaginabile il ′non agire′, il ′wu wei′ taoista nella società occidentale, o comunque in un tipo di società, nella quale la natura ha un′importanza e una presenza residuale, costituisce cioè un epifenomeno, rispetto alla presenza e alla diffusione invasiva di un ambiente antropomorfizzato, storicamente prodotto attraverso il lavoro umano variabilmente potenziato dallo sviluppo tecnologico? Il concetto stesso del Tao invitava alla osservazione della natura e di tutto ciò che esiste nell′universo, facendo attenzione al dualismo intrinseco che si trova in ogni forma di vita. Il Taoismo è una filosofia che non chiede atti di fede, ma si limita ad osservare e cercare l′equilibrio, a volte nascosto, di tutto ciò che ci circonda e che invita a considerare come l′eterna ciclicità delle forze contrapposte e complementari dello Yin e dello Yang, sempre alla ricerca del costante equilibrio, possa garantire al mondo, se non disturbato, una perfetta armonia. É evidente l′assoluta distanza geografica, economica, culturale, sociale e antropologica del contesto in cui si diffuse l′insegnamento di Lao Tse, rispetto alla società dell′ipercapitalismo tecnologico. Soprattutto a proposito dell′incondizionata prevalenza dell′artificiale nella società ipersviluppata, rispetto all′ubiquitaria diffusione del naturale nella Cina del V secolo a.C. Ciononostante - per rispondere alla domanda di cui sopra - l′insegnamento del ′wu wei′, del non agire mantiene un valore intrinseco universalmente valido, anche se noi occidentali non possiamo avvalerci della natura come garanzia di equilibrio e di armonia. Ciò che il ′wu wei′ può insegnare è di diffidare dell′immediatezza, di un agire condizionato dal desiderio e dalla brama di possesso, di un fare avventato e non ponderato. Ciò che anche a noi contemporanei occidentali, alla ricerca costante di ′un centro di gravità permanente′, la massima taoista può insegnare è il distacco da sé stessi, la propensione verso la riflessione e il ragionamento e infine la scelta del non agire, quando persiste il dubbio sul fare o sul dire. Anche perché, a voler essere sinceri, ogni volta che prendiamo una decisione o compiamo una scelta, sorge sempre il sospetto se non sarebbe stato più conveniente non aver preso quella decisione, non aver fatto quella scelta, sorge cioè il dubbio se non sarebbe stato addirittura meglio non aver agito affatto.

47) Il punto precedente ha accennato alla dimensione artificiale della vita nella società del capitalismo avanzato e alla obsolescenza o irreperibilità della dimensione naturale, facendo sorgere il dubbio riguardo a ciò che è naturale o artificiale nell′essere umano o addirittura se è ancora possibile e appropriato parlare di natura umana. La natura umana, per dirla con Wikipedia, "è l′insieme delle caratteristiche distintive, compresi i modi di pensare, di sentire e di agire, che gli esseri umani tendono naturalmente ad avere, indipendentemente dall′influenza della cultura. Le questioni su ciò che queste caratteristiche siano, cosa le provochi, e come la natura umana sia costituita, sono tra le più antiche e dibattute della filosofia occidentale". Definizione che fa sorgere dei sospetti più che fornire delle certezze, cioè dei dubbi sia riguardo a ciò che occorre intendere per natura umana, sia anche relativi al fatto se esiste ancora (o se è mai esistita) una natura umana indipendentemente dal condizionamento sociale e culturale. Anche riguardo alla succitata questione è necessario fare una scelta, di tipo teorico/filosofico, per non incorrere nell′impasse dell′indecidibilità, ovvero delle questioni ′di cui non si può parlare′, talmente ardua e problematica è la loro soluzione.

48) In ogni caso, il ginepraio di interpretazioni intorno al significato della natura umana consiglia un approccio indiretto, laterale: ogni essere vivente è un sistema complesso saldamente intrecciato con altri sistemi complessi, ognuno dei quali possiede caratteristiche specifiche di autoorganizzazione, ciascuno dei quali è, cioè, un sistema omeostatico che si riproduce autonomamente. D′altra parte natura e cultura sono ′costrutti culturali′; l′attribuzione di senso relativa alla natura umana varia storicamente, a seconda dei criteri culturali attraverso i quali viene definita. Quello che sembra assodato è che sia il mondo naturale che quello umano sono entrambi sottoposti alla medesima regola, quella della sopravvivenza (niente a che vedere con il darwinismo sociale) e che, allo stato attuale, l′umanità ha a che fare con un habitat che si configura come una ′seconda natura′, in quanto integralmente modellato dall′uomo, che a sua volta viene da esso plasmato, in un processo reciprocamente autopoietico. Il passo successivo, al di là della controversia settecentesca tra Rousseau e Hobbes sulla natura umana, sembra condurre alla fusione/simbiosi tra l′uomo e l′Intelligenza Artificiale, uno scenario non futuribile, ma attuale, nel quale la domanda relativa al quesito riguardante la specificità della componente naturale e/o artificiale dell′essere umano, perde significato. Come fattore chiarificatore del summenzionato quesito, rimane l′importanza decisiva del contesto storico, della cornice, unico elemento di spiegazione e interpretazione dei comportamenti e delle intenzioni che li hanno determinati. L′analisi della conformazione e del condizionamento di un particolare contesto di vita e di interazione può fornire infatti informazioni utili relative allo sviluppo e al divenire dell′essere umano nel suo intrecciarsi con l′ambiente artificiale ipertecnologico, situazione questa che plasma in profondità la naturalità e l′istintività umane. La cui innocenza e purezza è andata perduta da tempo, come nel ′Paradise lost′ di Milton, nel processo storico di dominio assoluto dell′uomo sulla natura, dominio economico e tecnologico che si è imposto in modo pressoché ubiquitario, come una seconda natura artificiale e antropomorfica.

49) Riepilogando, sembra che le osservazioni fin qui esposte abbiano evidenziato alcuni spunti di riflessione utili nella gestione dell′ansia e del malessere psicologico, spunti che rimandano a concetti, i quali chiamano in causa determinate considerazioni, la cui validità risulta dall′attività del pensiero e del ragionamento. Come se fosse ancora possibile ritagliarsi, in un universo completamente contaminato dalla tecnologia e dal digitale, uno spazio autonomo di riflessione e di autodeterminazione! Bisogna ammettere che quella accennata sopra è la versione ottimistica, il bicchiere mezzo pieno. Nella versione del bicchiere mezzo vuoto, quella altrettanto (se non ancora di più) legittima, evocata dai personaggi grotteschi e surreali del teatro di Samuel Beckett, la vita ha completamente perso ogni significato, il senso è deragliato nell′incomunicabilità, nell′attesa senza speranza, in una successione di eventi privi di logica e di interesse. É fuori discussione il fascino esercitato dalla prosa e dai personaggi del teatro dell′assurdo di Beckett, dal suo nihilismo radicale che non risparmia neppure la forma lessicale, che non concede niente al disincanto e alla riconciliazione con il mondo. E in effetti il richiamo alla riflessione, al pensiero, al distacco da sé stessi, alla qualità della vita, al libero arbitrio, offerti in queste riflessioni come sostegno e difesa nei confronti dell′ansia, - suona come un estremo tentativo di riconciliazione con quel mondo, i cui effetti sulla vita delle persone comportano problematiche, dalle quali è necessario proteggersi con i succitati espedienti. Di nuovo, come rievocato da una forza di attrazione irresistibile, ancora una volta il paradosso entra in scena e a questo punto sembra ergersi a figura emblematica, a cifra rappresentativa del vivere in quanto tale!

50) D′altra parte la lotta per l′affermazione del senso coinvolge forze economiche, sociali e politiche le cui finalità sono immancabilmente di parte; anzi sembra evidente che il reale vettore di produzione del senso abbia perso per strada la componente umana, cui è storicamente subentrato lo sviluppo tecnologico e la sua estensione digitale: l′Intelligenza Artificiale. In realtà il senso e, soprattutto, il conflitto che ci ruota attorno per la sua realizzazione, in un modo piuttosto che in un altro, riveste un′importanza cruciale, in quanto fornisce le coordinate valoriali necessarie all′affermazione, storicamente e geograficamente determinata, dell′identità personale e alla costruzione del significato della vita, in uno specifico periodo storico e in un particolare contesto sociale. Così per esemplificare, non è precisamente la stessa cosa impostare la propria vita sulla triade valoriale: ′Dio, patria, famiglia′, piuttosto che su quella alternativa ′sesso, droga e rock and roll′!! Entrambe hanno a che vedere con una specifica costruzione del senso che ha orientato diverse generazioni, relativamente al significato dell′esistenza, in un modo piuttosto che in un altro; attorno al quale ha avuto luogo uno scontro che ha impegnato l′Occidente del capitalismo avanzato per decenni a partire dalla fine della Seconda guerra mondiale. L′universo teatrale e letterario di Beckett ha proiettato sui tradizionali vettori di senso e di significato - quali: la famiglia, il lavoro, i soldi, il piacere, i figli, la forma fisica, la bellezza, il potere, ecc. - l′ombra dell′assurdità e della mancanza di senso, in un gesto culturalmente eversivo di distruzione/dissolvimento di tutti i valori, analogo a quello compiuto da Nietzsche un secolo prima.

51) Anche a proposito del senso, del significato della propria vita, così come in riferimento a Dio e alla verità, il lavoro di indagine non ha a che vedere con il trovare, ma con il cercare: la condizione umana richiede un investimento di energia finalizzata a una ricerca interminabile, perché non ha mai fine. Dio, la Verità, il Senso non si possiedono una volta per tutte, rappresentano dei percorsi di ricerca; ogni tappa raggiunta modifica il ricercatore, disponendolo a un nuovo percorso, a un rinnovato viaggio. Un Dio, una Verità, un Senso trovati e definiti una volta per tutte, ipostatizzati in qualcosa di immutabile e di irreversibile, hanno generato quel rifiuto, simbolicamente evidenziato dal teatro dell′assurdo di Beckett, che mette in scena la sterminazione dei Dio, della Verità, del Senso. A meno che, e qui siamo al ′credo quia absurdum′ attribuito a Tertulliano, ci inoltriamo nel territorio della fede, ma la fede, soprattutto quando coincide con il credere assoluto e incondizionato, non costituisce l′oggetto di questa ricerca.

52) Sarebbe interessante, arrivati a questo punto, porre la domanda relativa al quesito se c′è stata un′evoluzione, uno sviluppo dell′emotività umana o dell′umanità in quanto tale, dal Neanderthal al Sapiens; sarebbe interessante, cioè, sapere se l′evidente progresso del pensiero, della scienza, dei costumi, della cultura ha avuto effetti manifesti sui comportamenti e sugli atteggiamenti umani! La risposta non può essere un sì o un no in modalità manichea, ma nemmeno in modalità cerchiobottista. La presenza ubiquitaria a livello mondiale di guerre, omicidi, stragi, stupri fa propendere per una irrilevante incidenza della cultura e dell′educazione nel processo di incivilimento della natura umana e nel raffinamento dei costumi, anche se è fuori discussione la realtà storica del progresso in tema di diritti individuali, sociali e internazionali. Per tale motivo la garanzia di un autentico progresso negli atteggiamenti e nei modi di pensare e di sentire non può fare affidamento sulla volontà, sull′educazione, sulle speranze di progresso e miglioramento personale e collettivo, come è avvenuto finora. Il passo epocale di un microchip impiantato nel cervello, con la funzione di impedire non solo la realizzazione, ma il concepimento stesso di comportamenti violenti e aggressivi, - potrebbe costituire il più efficace ostacolo e impedimento nei confronti del continuo proliferare di guerre, omicidi e massacri.

53) Risulta evidente che una simile prospettiva pone parecchi dubbi e interrogativi, in quanto mette radicalmente in discussione il valore della volontà e della libertà, affidando alla tecnologia digitale la soluzione di problemi ancestrali, pressoché connaturati alla natura umana. É però altrettanto innegabile che la civiltà, la cultura, l′educazione non hanno sostanzialmente inciso sull′animo umano e sulla primordiale vocazione dell′uomo a uccidere, a esercitare violenza, a promuovere guerre, inverando la massima hobbesiana dell′′homo homini lupus′. La soluzione che proponeva il filosofo inglese all′egoismo irriducibile dell′essere umano, che assimilava la condizione naturale alla guerra di tutti contro tutti, era lo stato assolutistico, in cui il sovrano rimaneva fuori dal patto con i propri sudditi, garantendo in tal modo la fine del ′bellum omnium contra omnes′, cioè il ′Leviatano′. Un patto al tempo stesso di associazione e di sottomissione, attraverso il quale gli uomini introducono volontariamente restrizioni alla libertà personale, in vista della propria preservazione e di una vita più soddisfacente, che permetterebbe loro di uscire da quella miserabile condizione di guerra, emanazione spontanea e necessaria delle loro passioni naturali, quando non c′è un potere visibile che li obbliga all′adempimento dei patti e all′osservanza delle leggi, attraverso il terrore della punizione. Questa soluzione però non ha sortito gli effetti desiderati: è continuata pressoché inalterata la condizione di guerra di tutti contro tutti - dai clan tribali, agli stati nazionali - più o meno mascherata dall′abbaglio narcotizzante del consumismo e dal feticcio della prestazione, della performance a tutti i costi, che riverbera una condizione generale di ansia e di malessere, addomesticata e sedata dai media tecnologici.