Dott. Roberto Barbiani
Ricerca libera
20-10-2024

#3


24) Quando l′ansia incombe nella mente, grava sui pensieri, quali strategie adottare per ritrovare l′equilibrio emotivo e psicologico senza ricorrere a soluzioni chimico/farmacologiche? Distrarsi dal proprio stato mentale costituisce indubbiamente un rimedio efficace, ma non è facile né semplice distrarsi da sé stessi, perché significa differire i pensieri che in quel momento governano la mente e darsi la possibilità di nuovi pensieri e di una attività mentale più idonea al raggiungimento dell′equilibrio psicologico. Etimologicamente il verbo distrarre deriva dal latino ′dis-trahere′ e significa ′trarre/tirare in direzioni diverse′. Distrarsi ha quindi il significato di portarsi fuori, di distogliere l′attenzione, nel senso di lasciar andare, far scorrere i propri pensieri, non trattenerli e quindi non identificarsi con essi, in essi. Questo è possibile solo dedicandosi ad altro, cambiando la situazione, facendo cose - anche del tutto semplici - come andare a correre, guardare un film, leggere il giornale, cucinare, ecc. Il differimento dell′ansia passa attraverso attività che in quanto tali focalizzano l′attenzione su nuovi pensieri e nuove emozioni: in questo modo la mente può ricalibrarsi su pensieri ed emozioni diverse, divergenti rispetto allo stato mentale governato da ansie, paure, preoccupazioni. Anche in questo caso, come in quello trattato nel punto precedente, il pensiero e il ragionamento non sono sufficienti a garantire l′equilibrio emotivo, che può essere raggiunto o mediante relazioni appaganti (che contrastino la percezione del vuoto esistenziale) o attraverso attività che interrompono il fluire di pensieri negativi, oppure concentrandosi su qualcosa che ′porta fuori′, che appunto ′dis/trae′, ad esempio sul proprio respiro, come propone la ′mindfulness′.

25) Sembra che l′ansia, con tutti i suoi corollari (paura, preoccupazione, inquietudine, ecc.) possa essere affrontata in modo efficace attraverso due attività mentali tra loro connesse, quali il distrarsi e il differire. Entrambe impostate sul concetto di passare/spostarsi da un luogo/situazione mentale a un′altra, fanno entrambe riferimento al tempo, il presente nel caso del distrarsi, il futuro nel caso del differire e presuppongono una concezione fluida, dinamica, non statica dell′esistenza, in cui lo scorrere dei pensieri e delle esperienze costituisce la garanzia dell′ininterrotto e inconsapevole trasformarsi/divenire di ciò che siamo. In questo contesto, il differire non ha a che vedere banalmente con il rimandare o il procrastinare, quanto col non lasciarsi travolgere dall′urgenza e dall′immediatezza dell′agire o del dire, per apprestarsi a un atteggiamento riflessivo opportunamente predisposto all′attesa ponderata e al differimento dell′azione a tempo debito. L′importanza esistenziale del distrarsi risale a Pascal, il quale, con il concetto di ′divertissement′, indicava quel complesso di occupazioni, relazioni, intrattenimenti quotidiani in cui l′uomo si impegna, al solo scopo di nascondere a sé stesso il senso di vuoto e di nullità, la propria miseria. La società di massa e il potere ad essa correlato, a partire dall′antica Roma con la politica del panem et circenses, ha sempre fatto affidamento sugli svaghi e sui divertimenti come elementi essenziali della società dello spettacolo, finalizzati a promuovere il consumo e la produzione e a nascondere i rapporti di produzione. In questo bisogno di distrarsi, che la società dei consumi ha fatto proprio, inverando paradossalmente l′intuizione pascaliana, consiste la miseria e la vanità del mondo, ma anche il destino antropologico dell′essere vivente, contrassegnato fin dalla nascita dalla mancanza, in tutte le sue differenti declinazioni.

26) Scriveva Pascal, che indubbiamente della natura umana se ne intendeva, nei Pensieri: "Tutta l′infelicità degli uomini ha una sola provenienza, ossia di non saper stare da soli in una stanza". L′altra sua altrettanto fondamentale intuizione è il concetto di ′divertissement′, attraverso il quale gli uomini spostano e differiscono la propria attenzione dalla giusta direzione (di-vertere), che altrimenti li porterebbe a scoprire l′ "infelicità naturale della nostra condizione, debole e mortale e tanto misera che nulla ci può consolare allorquando la consideriamo da vicino". Dunque, il ′divertissement′ come distrazione dall′incapacità di sopportare la consapevolezza della propria miseria, che rimanda all′incapacità di stare da soli, in quanto la solitudine costituisce la dimensione più appropriata del pensare (alla propria condizione, ′debole e mortale′). Anche le relazioni - come i giochi, il lavoro o le guerre - costituiscono, nell′ottica pascaliana, altrettanti modi di distrarsi! Però il discorso non può considerarsi concluso: attorno alle varie modalità di ′divertissement′ nascono e si costituiscono infatti passioni, legami profondi, dipendenze, dalle quali risulta molto difficile distrarsi! Ogni relazione, ogni legame crea dipendenza; il cordone ombelicale, tagliato una prima volta, viene continuamente e ripetutamente ripristinato in forma simbolica, ma in modalità altrettanto resistente e vitale di quella che univa il neonato alla madre. Per questo motivo quando viene reciso, per motivi estranei alla nostra volontà, precipitiamo in quella angoscia di solitudine, dalla quale possiamo emergere solo attraverso un nuovo legame, che ci faccia sentire di nuovo col/legati!

27) In ogni caso, cambiare schemi mentali, vedere le cose e il mondo con occhi diversi, modificare la propria prospettiva, perché qualcosa di imprevisto, di inaspettato e di casuale ci costringe a farlo, - non è facile né semplice. In certi casi risulta addirittura impossibile, tale è il radicamento di aspettative, progetti, programmi, proiezioni della nostra mente. In questi casi il cambiamento di prospettive e di schemi mentali lascia il posto a disturbi psicologici e/o psicosomatici di varia natura, che bloccano il fluire dei pensieri e delle emozioni in una spirale patologica autoalimentantesi. La possibile soluzione, oltre che dall′impegno etico nei confronti del distacco da sé stessi attraverso il distrarsi e il differire, passa attraverso la capacità e l′allenamento autopoietico della mente, cioè il continuo ridefinire e rielaborare sé stessi, consistente nel percorrere il campo, per certi aspetti senza confini, della vacuità, che è il campo della non identificazione nei propri pensieri e della pienezza (svuotata dell′io) dello spazio interiore, in cui interno ed esterno scorrono e si compenetrano l′uno nell′altro. Anche in questo caso, come accennato al punto 21, il debito nei confronti del pensiero orientale, prevalentemente di matrice buddista, è incommensurabile.

28) Una considerazione/riflessione sui diritti civili e sulla politica in generale. Alla voce ′diritti civili′, il Dizionario di Storia Treccani scrive: "Diritti di cui godono tutti i cittadini di uno Stato in quanto tali. Sono i diritti riconosciuti dall′ordinamento giuridico come fondamentali, inviolabili e irrinunciabili (dunque non suscettibili di compressione da parte dello Stato), i quali assicurano all′individuo la possibilità di realizzare pienamente sé stesso. Tra i d.c. si collocano la libertà di pensiero, parola, espressione, stampa, associazione, oltre ai diritti propriamente politici, quali il diritto di voto e in genere di elettorato attivo e passivo". La domanda è: chi decide o in base a quale criterio viene stabilito che un determinato comportamento può assicurare o meno all′individuo "la possibilità di realizzare pienamente sé stesso", tale da essere riconosciuto come un diritto civile e, in quanto tale, "fondamentale, inviolabile e irrinunciabile"? Le risposte a questa domanda rimandano tutte a un supposto e generico ′buon senso′, il quale, secondo il dizionario Zingarelli, viene definito come "la capacità di comportarsi con saggezza e senso della misura, attenendosi a criteri di opportunità generalmente condivisi". Ma nel mondo sociale in cui viviamo - complesso, contradditorio, frammentato, conflittuale e irriducibile a "criteri di opportunità generalmente condivisi" - è ancora possibile parlare di buon senso, inteso come criterio di giudizio/ valutazione di atteggiamenti individuali e di pratiche sociali? Evidentemente ed inequivocabilmente, no: non esiste un proprietario, un padrone del buon senso, e coloro che attribuiscono a sé stessi tale ruolo, lo fanno del tutto arbitrariamente e per ragioni di potere e di dominio, non di verità. In secondo luogo, se non è il buon senso a stabilire la legittimità o meno di determinati comportamenti, non può essere nemmeno un ente o una organizzazione (politica, economica o religiosa) ad arrogarsi il diritto di decidere che cosa può o non può essere consentito o vietato, se non nell′ambito dell′interesse generale e del bene comune. Il che significa che, se determinati comportamenti, risultanti da scelte o decisioni liberamente autoriferite e circoscritti all′ambito strettamente personale, risultano - secondo i "criteri di opportunità generalmente condivisi" - illeciti, inopportuni, lesivi o pericolosi, non possono, in quanto tali, essere vietati o proibiti. Per il sacrosanto motivo che niente o nessuno può impedirmi di fare qualsiasi cosa che riguarda soltanto la mia persona e non danneggia o è lesiva di nessun altro. In questo senso il diritto al divorzio, all′aborto, all′eutanasia rientrano tra le libertà civili e hanno conquistato, dopo decenni o secoli di lotte per l′emancipazione, il diritto e il riconoscimento di far parte delle scelte e delle decisioni inalienabili degli individui. Questo significa che ho il diritto, se voglio, di danneggiare o di mettere in pericolo me stesso (e solo me stesso) e niente o nessuno può impedirmi o vietarmi di farlo! Il filo del ragionamento rimanda al concetto del libero arbitrio o, più in generale, all′etica della responsabilità e della reciprocità, che consiste nel non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te, ma anche: non impedire/vietare agli altri quello che non vorresti fosse impedito/vietato a te! Detto altrimenti: non impedirmi o vietarmi qualcosa solo perché la consideri sbagliata dal tuo punto di vista e nemmeno obbligarmi a qualcosa solo perché la ritieni giusta, calpestando in tal modo non solo la mia prospettiva/il mio punto di vista, ma anche la mia libertà di scelta. Per la semplice ragione che non esiste un punto di vista assoluto o un garante/delegato unico della libertà di scelta e chi si erge a titolare della libertà o a rappresentante dell′assolutezza e della verità, lo fa in modo del tutto arbitrario. La verità consiste nella ricerca della verità; come a proposito della ricerca di Dio attraverso la fede, la verità non rimanda alla testimonianza di una conoscenza posseduta e data per scontata una volta per tutte, ma a un cammino, indubbiamente faticoso e incerto, a un percorso di ricerca, di volta in volta delineato e storicamente determinato. Allo stesso modo, la libertà è il risultato - mai deciso o definito una volta per tutte - di scontri, di lotte, di conflitti, rispetto ai quali la storia, il cui motore anche nell′epoca ipertecnologica ha un andamento a zig-zag, è sempre stata e continua ad essere supremo testimone.

29) Inoltre - per rimanere nell′ambito di riflessione riguardante le possibilità e i limiti della libertà nell′attuale società del ′neototalitarismo soft′ - risulta evidente che il libero arbitrio e le scelte individuali sono indiscutibilmente condizionate da bias cognitivi, azionati e diffusi dagli strumenti ipertecnologici, i quali, alimentati da algoritmi, prevedono e indirizzano le scelte dei cittadini/consumatori, che si trovano così privati della libertà prima ancora di poterla scegliere e reclamare. Questa partita non è più tra lo Stato Leviatano e i cittadini, in quanto rimanda a una lotta interna ai corpi e alle menti degli individui (il ′biopotere′ di cui parlava Foucault), una specie di imposizione autoindotta, secondo la quale i più intimi desideri degli individui, manipolati e condizionati senza costrizione in funzione di interessi ad essi estranei, verrebbero rimodellati ad arte, presentandosi paradossalmente come frutto spontaneo delle loro scelte personali. In questa prospettiva sembrerebbe che il destino dell′erasmiano libero arbitrio sia stato sopraffatto dall′evidenza e dalla potenza del luterano servo arbitrio. La posta in gioco del dibattito, storico ma del tutto attuale, è cruciale: per i sostenitori del libero arbitrio l′uomo è responsabile delle sue azioni e delle conseguenze che ne derivano; coloro che negano il libero arbitrio sostengono che le azioni e le decisioni dell′uomo sono determinate da condizionamenti preesistenti e che quindi l′uomo non è libero nelle scelte che compie e nelle decisioni che prende. Riguardo a questa alternativa bisognerà pur sempre tuttavia operare una scelta, cioè, prendere una decisione. a favore del libero o del servo arbitrio. Situazione paradossale, che rimanda in ultima analisi all′ineliminabile paradosso della condizione umana: la scelta in questione sarà libera oppure risulterà indotta/condizionata? In mancanza di criteri obbiettivi di valutazione, dovremo prendere in considerazione una scelta affidata al caso? Rifacendoci al colpo di dadi di Mallarmée (′Un coup de dés n′abolira jamais le hasard′), la risposta alla domanda non potrà che essere soggettiva ed avere un carattere contingente, non potrà, cioè, essere considerata nella prospettiva dell′obbiettività o della necessità storica. A dispetto di ogni evidenza e della pur condivisibile vulgata foucaultiana, personalmente considero sempre realizzabile la scelta in favore del libero arbitrio, la possibilità cioé di ′cambiare canale′, di alterare lo scenario delle nostre prospettive, di prendere decisioni non condizionate dal supposto ′Truman Show′ nel quale siamo immersi. A patto, beninteso, che la lucidità e la propensione al ragionamento rimangano l′attitudine essenziale della mente umana.

30) La decisione a favore del ′libero arbitrio′ affida all′individuo e alle sue risorse emotive e intellettuali l′estrema possibilità di scelta e quindi in ultima analisi l′opportunità di essere libero. Nella prospettiva del servo arbitrio invece, alla soggettività, alterata da un condizionamento ad essa predeterminato, non rimane che fare affidamento sull′aspettativa messianica di una palingenesi universale, che trasformi il condizionamento totalizzante in opportunità e possibilità di emancipazione e affrancamento. Con qualche forzatura, si potrebbe trasferire la questione sul piano della politica tout court: la propensione per il libero arbitrio rimanda a un soggetto incline al ragionamento e quindi al confronto/scontro tra posizioni divergenti, confronto sempre alimentato da valutazioni razionali, sostenute da spiegazioni e argomentazioni; l′ipotesi del servo arbitrio invece, in considerazione della permeabilità del soggetto a manipolazioni e condizionamenti sovradeterminati, potrebbe alimentare per contrasto un desiderio di rivalsa e di riscatto, il cui approdo andrebbe a sfociare in posizioni ideologiche o prese di posizione incondizionate, imperniate su convinzioni fideistiche, più che su certezze fondate sul ragionamento, oppure anche in uno scetticismo, una diffidenza o una indifferenza assolute e senza speranza.

31) Rebus sic stantibus, alcune considerazioni sulla potenza dell′ossimoro e sulla diffusione universale del paradosso. Il primo è una figura retorica consistente nell′accostare, nella medesima locuzione, due antonimi, cioè parole che esprimono significati contrapposti (per es. lucida pazzia); il paradosso rimanda invece ad affermazioni o giudizi che, per il loro contenuto, appaiono contrari all′opinione comune e proprio per questo risultano sorprendenti e incredibili. In questo contesto l′interesse non è però rivolto all′ossimoro o al paradosso come strategie linguistico-retoriche, ma come manifestazioni della condizione fenomenologica dell′essere umano, il perimetro all′interno del quale si snoda l′andirivieni paradossale dell′esistenza. Non per niente è stata usata l′espressione ′ossimoro vivente′ a proposito di personaggi, come Pier Paolo Pasolini o Curzio Malaparte, considerati eretici, contradditori, non catalogabili, la cui esistenza e il cui pensiero è sempre sfuggito a criteri o a paradigmi di omologazione e rientra invece a pieno titolo nel dominio indecifrabile del paradosso. Come se la loro esistenza fosse l′incarnazione vivente dell′ossimoro, un′unità di elementi apparentemente contradditori, ma che coesistono nel medesimo individuo; come se entrambi testimoniassero nella propria persona l′emblema della condizione paradossale dell′esistenza umana. Emblema universale e antropologico, che, a vario titolo, rappresenta ed è comune a tutti e che la loro esposizione mediatica ha solo accentuato. La questione non riguarda però tanto la constatazione della dimensione paradossale e ossimorica dell′esistenza, quanto l′ineluttabilità di tale caratteristica e la domanda riguardo alla possibilità o meno di sfuggire ad essa. E, nel caso fosse possibile il sottrarsi, come? In che modo? Coerentemente con le riflessioni precedentemente addotte e in considerazione dell′estremo valore di una scelta libera, svincolata da pressioni circostanziali, ritengo che sia sempre plausibile trovare - attraverso l′attitudine a interrogare/interrogarsi, all′esercizio metodico del pensiero e alla sua predisposizione alla valutazione, all′interpretazione e allo svisceramento in profondità - la possibilità (l′hegeliana ′astuzia della ragione′) di trascendere la cogenza delle situazioni e il destino ossimorico e paradossale, cui esse vincolano. Senza per questo pervenire alla presunzione o all′illusione che la contraddizione e l′emorragia di senso, insite nell′ossimoro e nel paradosso, possano venire eliminate una volta per tutte dall′orizzonte della vita.

32) Paradossalmente, ciò che garantisce la possibilità di una scelta libera e della libertà in quanto tale, è la morte, il fatto, cioè, che sia sempre possibile - a prescindere dalle situazioni che si vivono e sfruttando la metafora mediatica - ′cambiare canale′ o addirittura ′interrompere le trasmissioni′, ′spegnere il televisore′. Estremo paradosso: la morte intesa non come la fine della vita (versione basata sulla quantità, sul numero degli anni di vita), ma come garanzia della libertà, garanzia cioè che nella vita la libertà è sempre possibile (versione fondata sulla qualità della vita). Perché il problema non è mai che la vita abbia termine, questo è un dato di fatto; il vero problema riguarda le condizioni, il livello di accettabilità della vita che si vive, cioè, ancora una volta, la qualità della vita. É da tale prospettiva che la possibilità di porre termine a una vita diventata inaccettabile, i cui presupposti confliggono con un′esistenza non tanto priva di piacere, quanto di dignità, rappresenta l′estrema testimonianza e garanzia di libertà. Da questo punto di vista, la paura della morte ha a che vedere con la prospettiva quantitativa della vita, quella assoggettata al numero degli anni; nell′ottica qualitativa della vita (cfr. i punti 10 e 11), la morte è invece la garanzia della libertà, della scelta libera, del libero arbitrio, non può essere quindi connessa a sentimenti di paura o di terrore. Altro discorso la questione relativa all′al di là della morte, se cioè la vita, trasmutata in altre forme, continua ad esistere dopo la morte. Ma questo è un problema, seppur legittimo, oggetto di fede, che esula dalla presente indagine.