14) La rinuncia al desiderio sembra portare in una direzione ascetica e misticheggiante di derivazione orientale (buddismo, taoismo)! Eppure, costituisce il risultato coerente dell′applicazione rigorosa di quel metodo esplicitato nei punti 6/7/8, focalizzato sull′analisi del ragionamento e del pensiero. In questo contesto il desiderio viene considerato nel suo significato filosofico di stato di affezione provocato da una sensazione di mancanza; si manifesta come interesse o attrazione per un determinato oggetto, esperienza, obbiettivo o persona; è completamente concentrato sull′appagamento e sulla soddisfazione, in funzione della realizzazione personale. La sua caratteristica è di riprodursi all′infinito, ogni volta che lo stato di mancanza che l′ha generato viene colmato. L′errore che bisogna assolutamente evitare è il peccato di orgoglio, la hybris della tragedia greca, la nietzschiana volontà di potenza, cioè la presunzione che attraverso il pensiero e il ragionamento sia possibile risolvere ogni problema, anche se la possibilità di risolvere ogni problema presuppone la convinzione che sia possibile farlo e questa possibilità ha a che vedere con l′esercizio del pensiero. Contraddizione senza soluzione, che appartiene alla situazione ontologicamente contraddittoria dell′essere umano, più che all′ambiguità logica del pensiero! D′altra parte la condizione umana in quanto tale è contrassegnata dalla mancanza: la nascita stessa costituisce il trauma originario, l′origine, secondo Otto Rank, dell′angoscia (dal latino ′angustia′, che deriva da ′angere′, stringere). Il passaggio dalla pienezza incondizionata, nell′oscurità del ventre materno e del liquido amniotico, al venire alla luce durante l′evento della nascita, espone infatti il neonato alla mancanza (realizzata attraverso il taglio del cordone ombelicale) e alla perdita irreversibile della situazione precedente, contrassegnata dalla totale assenza di sensazioni di bisogno e di desiderio (cfr. Otto Rank, Il trauma della nascita).
15) La ricerca di forme di compensazione psicologica finalizzate a fare da contrappeso alla mancanza originaria, conduce a una situazione esistenziale, in cui la costruzione dell′identità personale rimanda a un quid, che va oltre il vissuto famigliare e le esperienze edipiche. Un quid del tutto personale, casuale ed eterogeneo, che viene vissuto come un bisogno imprescindibile e che si configura attraverso vere e proprie forme di dipendenza. Qui non siamo più nell′ambito dei bisogni materiali e della loro soddisfazione, che sono del tutto generici, pressoché identici per tutto il genere umano e che vengono più o meno appagati nelle società opulente consumistiche, - il quid di cui sopra si riferisce all′ambito dei bisogni psicologici. É ciò che riempie il vuoto esistenziale originato dalla sensazione di mancanza strutturale, esperita col taglio del cordone ombelicale e che, a seconda delle diverse organizzazioni di personalità, assume per ognuno caratteristiche e declinazioni differenti. É ciò che, in ambito personale, relazionale e professionale, si configura come una esigenza fondamentale del nostro essere, senza la quale il nostro vivere perderebbe significato e valore. É ciò che viene vissuto nelle modalità dell′attaccamento come una dipendenza, cioè in maniera tossica, anche se non ha niente a che vedere con le droghe. É ciò la cui importanza fondamentale, per l′equilibrio della nostra identità e della nostra salute mentale, viene percepita il più delle volte quando viene meno, quando si perde, scatenando spesso reazioni violente e fuori controllo. Qui non c′entra il legame di attaccamento nelle sue diverse declinazioni (sicuro, evitante, ansioso), perché la sensazione di vuoto e di mancanza è un′esperienza che attiene alla nascita in quanto tale e non solo alle relazioni o al legame con la figura di attaccamento.
16) Sarebbe necessario a questo punto esemplificare per sommi capi che cosa si intende con il quid di cui sopra, anche solo per dare un′idea di che cosa si sta parlando. Innanzitutto, alcune considerazioni: a) molte persone, che non hanno fatto altro durante tutta la vita che sognare la fine dell′attività lavorativa, quando raggiungono l′agognata pensione cadono in depressione, non riescono più ad arrivare sereni alla fine della giornata, perché il tempo non passa mai; cercano di impegnarsi in attività di volontariato, spesso senza risultati attendibili; sono sopraffatte dalla noia. Evidentemente non avevano nessuna consapevolezza dell′importanza che il lavoro aveva per il loro equilibrio emotivo e psicologico; b) parecchie relazioni affettive spesso finiscono, per volontà di uno o di entrambi i partner. Quando è solo uno a decidere di interrompere la relazione (magari per ottimi motivi), di solito l′altro partner ha reazioni di rabbia o di angoscia o di disperazione o di possessività esasperata, che possono sfociare in comportamenti aggressivi, in certi casi molto aggressivi (vedi i femminicidi) oppure autodistruttivi. In questo caso il partner rimasto solo contro la sua volontà (magari del tutto meritatamente), vive una situazione psicologica di abbandono e di solitudine insopportabile; la persona da cui è stato lasciato rappresentava una componente fondamentale del suo essere e della sua identità, costituiva la garanzia del suo equilibrio interiore, condizione di cui era del tutto inconsapevole; c) altri esempi possono riguardare situazioni assolutamente casuali, che interrompono o rendono impossibile continuare a esercitare determinati hobbies o a coltivare particolari interessi, cui ci si dedicava con abnegazione quotidiana, prima dell′evento che ha costretto allo stop! Malattie, situazioni personali e famigliari complicate, perdite economiche, separazioni, incidenti, lutti, ecc., sono alcune delle situazioni della vita che interrompono abitudini inveterate, rendendo manifesto il nostro attaccamento ad attività che non possiamo più praticare o relazioni che non possiamo più frequentare e nei cui confronti avevamo un atteggiamento di dipendenza, il cui improvviso venir meno ci fa vivere vere e proprie crisi di astinenza, come la mancanza di droga per il tossico. Il quid di cui sopra, quindi, riempie un vuoto la cui rilevanza non sempre o ben difficilmente si palesa a livello di consapevolezza, se non quando improvvisamente viene a mancare, con i suoi a volte tragici effetti di angoscia e di disperazione.
17) Che implicazioni comporta, nel tipo di considerazioni fin qui affrontate, l′ipotesi che la maggior parte degli eventi e delle situazioni importanti della vita dipende da circostanze fortuite o ha a che vedere con il caso? Nel senso che non c′è un copione, una trama e quindi un regista che ha fissato le linee guida di ciò che accade...Il che comporta che concetti come fato, destino, necessità ontologica (nel senso parmenideo che tutto ciò che è ed accade debba essere così e non altrimenti), sono concetti privi di evidenza razionale, oggetto casomai di fede! E come si coniuga una concezione casuale degli eventi con la disciplina del ragionamento e con l′attitudine al costante esercizio del pensiero come modalità per la risoluzione dei problemi?
18) Il terzo principio della dinamica, conosciuto come Terza legge di Newton o principio di azione e reazione, enuncia che per ogni forza che un corpo A esercita su un altro corpo B, ne esiste un′altra uguale, in modulo e direzione, contraria in verso, che B esercita su A. Il che significa che ad ogni azione corrisponde un′azione/reazione uguale e contraria. Questa corrispondenza ha il carattere della necessità, non ubbidisce al principio della casualità! Come si concilia tale considerazione con ciò che è stato esposto nel punto precedente? É una questione di prospettiva. Cerchiamo di esemplificare. Situazione A: 1) cammino per strada e sferro un calcio a un passante, che reagisce aggredendomi; 2) mia moglie scopre che ho una relazione clandestina e mi caccia di casa; 3) ho un esame in vista del quale non mi sono preparato, vengo bocciato. Situazione B: 1) frequento una palestra nella quale un ragazzo che conosco mi fa conoscere una ragazza con la quale stabilisco un rapporto sempre più stretto che sfocia in un matrimonio; 2) sto passeggiando, attraverso le strisce pedonali, un automobilista distratto mi investe, finisco all′ospedale; dove 3) conosco una persona che conosce il mio datore di lavoro il quale, avvertito dal mio compagno di camera, mi propone uno scatto di carriera. È evidente che le situazioni descritte in A sono sottoposte alla legge dell′azione/reazione, hanno cioè un carattere di necessità (anche se non si può mai prevedere la reazione: nel caso 1 il passante potrebbe darsela a gambe; nel caso 2 mia moglie potrebbe perdonarmi; così come potrei superare brillantemente l′esame nel caso 3). Mentre nelle situazioni elencate in B il rapporto tra l′azione (1 la ragazza conosciuta in palestra, 2 l′attraversamento delle strisce pedonali e 3 il vicino di letto all′Ospedale) e la reazione (1 il matrimonio con la ragazza, 2 l′incidente e l′ospedalizzazione, 3 l′avanzamento di carriera) è del tutto casuale e fortuito! Il fatto è che le situazioni di tipo B non hanno di per sé un carattere problematico, sono i loro effetti a determinarlo; mentre le situazioni di tipo A presentano un carattere intrinsecamente problematico, necessitano quindi di una qualsivoglia soluzione, da qui il ricorso alla disciplina del ragionamento e all′esercizio del pensiero! È la prospettiva a partire dalla quale si considera una situazione che ne determina il significato e ne misura il valore e l′importanza, è sempre la prospettiva da cui ci si pone a decidere della problematicità o meno di una situazione!!
19) Una volta stabilita l′importanza della prospettiva nella considerazione della problematicità o meno di una determinata situazione, la domanda nella parte finale del punto 17 rimane ancora senza risposta. Il punto 18, stabilendo una distinzione tra situazioni sottoposte al principio dell′azione/reazione che hanno un carattere di necessità e situazioni in cui il rapporto azione/reazione è fortuito e casuale, ha sancito che la caratteristica della problematicità spetta alle prime, alle seconde solo per quanto riguarda gli effetti. Il ricorso alla disciplina del ragionamento ha quindi a che vedere con quelle situazioni (descritte in A) che evidenziano connotazioni di problematicità, concernenti il controllo che posso esercitare su di esse. Il punto discriminante è proprio questo: noi siamo responsabili per quanto attiene a tutto ciò che è nel nostro controllo; ciò che è al di fuori del nostro controllo non è in nostro potere, esula dal nostro ambito di responsabilità, il che rimanda alla vexata quaestio riguardante l′evidenza che il controllo su qualcosa/qualcuno coincide con il quantum di potere che possiamo esercitare.
20) Foucault ha stabilito l′equivalenza tra sapere/potere e controllo attraverso il concetto di biopotere: pur condividendo l′analisi foucaultiana, non è questo l′ambito di interesse delle seguenti considerazioni. Dal punto di vista metodologico, la distinzione (di origine stoica, cfr. il Manuale di Epitteto) tra ciò che è e ciò che non è nel nostro controllo e quindi in nostro potere, è determinante, perché focalizza la direzione della nostra attenzione/concentrazione e impedisce la dissipazione di energie. Risulta pertinente a questo proposito quella specie di preghiera laica ispirata al Manuale di Epitteto: "Che io possa avere la pazienza di accettare le cose che non si possono cambiare, la forza di cambiare quelle che possono essere cambiate, ma soprattutto l′intelligenza di saper distinguere le une dalle altre". Questa distinzione, di per sé fondamentale, rimanda alla crucialità del giudizio, come aveva intuito lo schiavo-filosofo greco, riguardo all′equilibrio e al benessere psicologico: "Ciò che turba gli uomini non sono le cose, ma i giudizi che essi formulano sulle cose" e il giudizio rimanda all′opinione, alla valutazione, alla capacità di misurare, di determinare il senso e l′importanza delle cose. Questo significa che il ′metro di giudizio′, inteso come la capacità di stabilire una misura, di valutare/calcolare/soppesare, può orientare verso l′equilibrio e il benessere psicologico oppure verso l′instabilità e il disordine mentale; è evidente però che l′attività del pensiero, che dà origine al giudizio, non è omogenea o unilaterale, non si esaurisce nell′argomentazione logica o nel ragionamento. Qui il focus della riflessione ha a che fare con quella forma di sapere che generalmente va sotto il nome di intuizione, nel significato di conoscenza immediata e diretta di una evidenza, tradizionalmente contrapposta a una conoscenza logica e discorsiva. Il pensiero intuitivo si nutre di segnali, dubbi, visioni prospettiche, sospetti, sensazioni, stati d′animo; l′intuizione non è vera o falsa, ma giusta o sbagliata; essa rimanda a una comprensione immediata delle cose e a una soluzione diretta dei problemi, senza passare attraverso la concatenazione logica e/o discorsiva dei pensieri e dei ragionamenti. Arriva direttamente al punto della questione o del problema; però, a differenza del ragionamento, che possiede una logica intrinseca comunicabile e trasmissibile, oggetto di insegnamento e apprendimento, il pensiero intuitivo ha caratteristiche del tutto personali, non può essere oggetto di insegnamento o di apprendimento, si ha o non si ha, in gradi e capacità diverse da persona a persona.
21) Comprendere che il mondo è senza fondamento e che niente garantisce nulla, cioè che il garante non esiste (′Dio è morto′, secondo l′aforisma 125 della ′Gaia Scienza′ di Nietzsche), non significa soccombere alla disperazione, alla mancanza (di fondamento, di garanzia, di senso), ma imparare ad abitare il nulla, trovare nella vacuità la pienezza, abbandonare l′attaccamento verso sé stessi, accettare la propria caducità tra la caducità di tutte le cose. Questo lasciarsi andare, abbandonarsi, recedere da sé stessi, diventare ospite di sé stessi senza possedersi, è come un camminare senza una direzione perché il viandante è sempre già arrivato, il suo percorso non è finalizzato e direzionato come il ritorno a casa di Odisseo o il cammino verso la terra promessa di Abramo/Mosè. Qui il riferimento concettuale è la filosofia del buddismo zen, con la sua visione della vacuità, dell′essere in cammino, del non dimorare spirituale in nessun luogo, della compassione, del non attaccamento. Nell′ambito delle considerazioni qui esposte, Il problema riguarda la capacità di imparare a vivere l′impermanenza, il che significa congedarsi dal proprio sé in un supremo atto di egocentrismo, predisporsi spiritualmente alla morte, intesa come l′impresa rischiosa di morire a sé stessi, risvegliarsi all′assenza del sé. Imparare a vivere l′impermanenza significa imparare che tutto scorre, che tutto è a scadenza, anche se - a differenza del latte o del formaggio - non è possibile prevederne la data.
22) Si tratta di esplorare il cammino inverso rispetto a quello percorso dal bambino quando viene al mondo, il quale costruisce la personalità e il carattere sperimentando i legami di attaccamento attraverso il vissuto famigliare. Si tratta di alterare la naturale tendenza all′attaccamento e alla sua riproduzione incessante su oggetti e persone, situazione che esalta la possessività e il feticismo dell′ego, - e di pervenire a una forma mentis improntata sulla fluidità e sul distacco, da sé stessi in primis, che non è lontananza ma prossimità a sé stessi. L′ego dell′attaccamento è l′ego del possesso e della mancanza, dell′identità e del dominio; l′ego della distanza è l′ego della pienezza e della impermanenza; il primo usa/strumentalizza il mondo e sé stesso, il secondo interagisce col mondo, si conforma alla sua e alla propria provvisorietà, si soggettivizza oggettivandosi, si ritrova alienandosi. L′ego dell′attaccamento cerca la stabilità, la conferma, il riconoscimento (cfr. la dialettica hegeliana servo/signore), l′ego della distanza cerca il vuoto, la serendipità, l′alterazione. Il primo è proiettato nel passato o nel futuro, il secondo è concentrato sul presente.
23) Però...c′è un però: la possibilità di superare l′ego dell′attaccamento ha a che vedere infatti con uno stato emotivo pacificato ed equilibrato, non alterato da situazioni di mancanza o dal bisogno di conferme e riconoscimenti, uno stato emotivo di pienezza e di stabilità, in ultima analisi uno stato emotivo contrassegnato nella prima infanzia da un attaccamento sicuro. Quando l′attaccamento infantile è stato vissuto in modalità ansiosa o evitante o ambivalente, cioè in modo insicuro e/o disorganizzato, le tracce dello stile disfunzionale di attaccamento si scaricano sugli schemi emotivi/affettivi adulti, generando un insopprimibile bisogno di sicurezza e di conferme e predisponendo all′attaccamento e alla possessività. In queste situazioni l′emotività va per conto proprio, dal momento che essa è di per sé stessa completamente dissociata dal controllo razionale. Anche un attaccamento sicuro però non è di per sé garanzia di autosufficienza, di libertà dal bisogno di un riferimento affettivo, di capacità di stare da soli. Il rimanere da solo, la scelta di fare a meno di relazioni profonde, può essere vissuta in modo sereno ed equilibrato; il sentirsi solo, il sentire emotivamente l′angoscia di solitudine, il morso del vuoto esistenziale è invece una condizione di mancanza e di forte disagio, che costringe alla ricerca, spesso affannosa, a volte disperata, di qualcuno/di qualcosa, la cui presenza faccia da garante al vuoto esistenziale e alla sensazione di insopportabile sofferenza che esso comporta. Sembra quindi impossibile o molto difficile in queste situazioni trovare l′equilibrio emotivo con la sola forza del pensiero e del ragionamento. L′unica possibilità di uscirne fuori è affidata alla sensibilità, all′amore, alla presenza di un partner che, proponendosi in forma compensatoria come figura di attaccamento sicura e sostitutiva, si configuri allo stesso tempo come possibilità concreta di affrancamento dal bisogno di attaccamento e di conferme e dalla sensazione di mancanza e di angoscia. Situazione paradossale, in cui il distacco emotivo presuppone una figura di attaccamento, la cui presenza garantisca da una parte che la sensazione di angoscia connaturata all′evento/trauma della nascita non venga percepita nella sua virulenza e dall′altra che gli effetti di un attaccamento infantile disfunzionale non compromettano gli schemi emotivi/affettivi adulti.