Dott. Roberto Barbiani
Ricerca libera
26-10-2024

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81) Il concetto di intenzionalità è stato arbitrariamente sfruttato dalla psicologia mainstream, che si occupa di benessere e di salute mentale e che ha esaltato il potere delle intenzioni, considerate strumenti efficaci per plasmare il futuro delle persone, realizzare i loro sogni, influenzare positivamente l′esistenza. A questo proposito, con intento volutamente ironico, verrebbe da proporre il proverbio di origini latine (Ovidio, Metamorfosi: ′Verum velle parum est′): ′Di buone intenzioni è lastricata la via per l′inferno′! È un atteggiamento tipico dell′essere umano, spinto dall′ entusiasmo iniziale, prefissarsi obbiettivi, che poi abbandona strada facendo. Se l′intenzione buona conduce a conseguenze cattive, è perché i comportamenti o gli atteggiamenti che ha ispirato, scontrandosi e intrecciandosi con altri comportamenti e atteggiamenti, hanno prodotto quel risultato. Siamo sempre dalle parti dell′eterogenesi dei fini′, concetto scoperto da Vico, commentato nel punto 74. Premesso che la distinzione concettuale tra intenzionalità e intenzione verrà affrontata più avanti, nel punto precedente l′intenzionalità psicologica, nonostante la mancanza di precisione semantica connessa al suo significato, veniva espressamente considerata l′atteggiamento mentale idoneo a orientare l′etica del ragionamento, in quanto provvista di un′efficacia intrinseca a prescindere dai risultati.
Le intenzioni comunque, si possono anche tradire, nel senso che possono essere manifestate, espresse senza che ci sia la volontà di farlo. Tenere nascoste le proprie intenzioni, riguardo a un atteggiamento o un comportamento, può dipendere da svariati motivi, alcuni nobili, altri meno, altri del tutto esecrabili; fa parte in ogni caso di una strategia mirante a uno scopo. Palesare intenzioni diverse da quelle lasciate credere è molto frequente nella pubblicità, in politica e anche in alcuni sport, ad esempio il calcio, dove una squadra, in vantaggio sull′altra, potrebbe mantenere il possesso di palla per lunghi periodi, senza veramente giocare, con l′unico obbiettivo di far trascorrere il tempo e non rischiare di compromettere il vantaggio acquisito. Dalla massima di Ovidio al tradire le intenzioni, l′argomento in questione è alquanto infido e scivoloso, non può essere invocato o generalizzato, se non con mille distinguo e precauzioni! Può indubbiamente essere considerato nella prospettiva di uno dei tanti modi di riempire e tener occupata la mente (attraverso pensieri o appunto intenzioni), esercizio/attività indispensabile, in quanto la mente non sopporta l′horror vacui, il terrore del vuoto. E allora, per restare nel tema di queste considerazioni, dal momento che la mente è sempre in attività e che in essa devono perennemente confluire e circolare pensieri, emozioni e processi mentali di qualsivoglia tipo (progetti, fantasie, deduzioni, ricordi, desideri, intenzioni, paure, preoccupazioni, giudizi, sogni, avversioni, ecc.), è ovvio che pensieri negativi producono stati mentali e emozioni negative, mentre pensieri positivi si traducono in stati d′animo e emozioni positive.

82) I bambini vivono in un mondo magico e incantato, però loro non lo sanno; sono gli adulti a considerare la mente infantile in questa prospettiva! Gli adulti, pur non potendo recuperare o attualizzare la dimensione mentale infantile, sia per la situazione di realtà in cui vivono, sia per le responsabilità derivanti dal loro ruolo, possono però - a determinate condizioni - viversi, se non in modalità magica o fantastica, almeno in modalità mitologica, nel senso che possono creare/costruire una mitologia personale, della quale mentalmente sentirsi parte; cioè una narrazione che produca effetti di autoriconoscimento e immedesimazione, anche al prezzo dell′alterazione di come si sono svolti realmente i fatti. In questa prospettiva la mitologia, più che con le credenze relative ai miti di una determinata tradizione culturale o di una popolazione storicamente scomparsa, ha a che vedere con il ′raccontarsela′, il cui significato non rimanda soltanto alla versione negativa, che lo rappresenta come una forma di autoinganno della mente, un′illusione cognitiva che fa riferimento all′arte di mentire a sé stessi, ma può contemplare anche una versione positiva, consistente nel raccontare a sé stessi una storia, creare un racconto del cui intreccio sentirsi protagonisti. É quello che le persone fanno quando evocano il loro passato, quando riproducono i ricordi del loro vissuto, rivestendoli appunto di una velatura mitologica, che contraddice palesemente il più delle volte lo svolgimento cronologico dei fatti, il modo in cui si sono effettivamente realizzati.

83) Quindi la mente tende spontaneamente ad alterare - attraverso la memoria e la capacità di creare racconti e storie - sia la realtà di ciò che è accaduto, che l′ordine e l′andamento cronologico dei fatti e del vissuto personale. La ricerca del tempo perduto, con l′avanzare dell′età e degli anni, diventa un′esigenza psicologica fondamentale: un modo di reinventare mitologicamente sé stessi e il proprio vissuto, per sottrarlo all′insignificanza e all′usura del tempo; un′occasione per trasfigurare la realtà in un racconto epico; una maniera di preservare l′unicità e l′eccezionalità del vissuto dal suo dissolversi nella serialità del tempo trascorso oppure di attualizzarla e preservarla in un eterno presente. La differenza tra pensiero logico e pensiero mitico riguarda soprattutto il concetto di tempo: ciclico ed eternamente presente quello del mito; lineare e scandito in passato, presente e futuro, quello della ragione, la cui pretesa di collocare ciascun evento in un tempo storico ben preciso e circoscritto colpisce al cuore l′essenza stessa della concezione mitica. In questo modo infatti l′evento storicizzato non è più suscettibile di rivivere nel presente; esso è consegnato alla storia, al passato, per sempre. I legami di coesione e armonia che lo collegavano al nostro vissuto vengono così recisi e, con essi, vengono recisi i legami spirituali che lo rendevano vitale e vivificatore. La tendenza della memoria a mitologizzare il passato, risponde proprio all′esigenza psicologica di reinventarlo in chiave epica, sottraendolo sia all′oblio che alla sua dissoluzione nello scorrere inesorabile del tempo.

84) Uno dei modi più diffusi utilizzati dalle persone per cercare l′equilibrio, o almeno per ridurre la tensione, consiste nel giustificarsi, cioè nell′addurre ragioni/spiegazioni/motivazioni (non sempre valide) ai propri comportamenti o atteggiamenti. Tanto per fare un esempio, il fumatore, pur sapendo che il fumo fa venire il cancro, giustifica mentalmente la propria dipendenza dalle sigarette, raccontando a sé stesso che si sente in ottima forma e che nella vita quotidiana esistono molte occasioni e fattori potenziali di rischio letale, oltre al fumo di sigaretta, per cui il fumare diventa solo uno dei pericoli tra i tanti e, in quanto tale, assolto. É talmente forte la spinta/il bisogno di autogiustificarsi, che spesso le spiegazioni/motivazioni addotte sono incongruenti o contradditorie o addirittura prive di fondamento. In questi casi si parla di ′dissonanza cognitiva′, la cui funzione consiste appunto nell′ eliminare (surrettiziamente) l′incongruenza tra scelte/pensieri/atteggiamenti in contrasto tra loro, il che significa sostanzialmente mentire a sé stessi, per alleggerire l′ansia e la tensione che la contraddizione comporta! Qui non si tratta di esprimere un giudizio riguardo all′attitudine ad autogiustificarsi e mentire a sé stessi, nemmeno di valutarla o legittimarla alla luce degli effetti conseguiti. La questione ha a che vedere con l′importanza, cruciale per il benessere psicologico, della ricerca dell′equilibrio emotivo e della riduzione dell′ansia, obbiettivi perseguiti anche, ma non solo, mediante la dissonanza cognitiva o la propensione a raccontarsela. La tensione emotiva, l′instabilità e il disorientamento psicologico, la confusione mentale rappresentano stati che la mente fa di tutto per ridurre o eliminare con ogni mezzo, rimuovendo le cause o le fonti del loro persistere. Anche la dissonanza cognitiva, così come il raccontarsela, nella versione di mentire a sé stessi, possono tuttavia avere una funzione effettivamente positiva, soprattutto in presenza di sofferenze elevate o difficili da affrontare (lutti, rotture di relazioni profonde, fallimenti professionali, ecc.). L′importante è che non vada smarrita la consapevolezza che l′incongruenza cognitiva rappresenta soltanto una modalità strumentale di affrontare situazioni di particolare disagio; è importante cioè non credere o, peggio, non identificarsi con la dissonanza cognitiva implementata, trasformando in un modus operandi abituale del pensiero, quello che è solo un espediente mentale per far fronte alle emergenze.

85) Spesso la spinta a migliorare le proprie prestazioni ai vari livelli (sportivo, professionale, lavorativo, relazionale e persino sessuale), induce molte persone, in una sorta di pressante perfezionismo, a subordinare ogni aspetto della vita al risultato performativo, trasformando una passione, un interesse o una disciplina autoimposta in un′ossessione. Il dovere di raggiungere o mantenere i livelli prestabiliti della performance obbliga a un costante controllo compulsivo, che viene vissuto con forti sensi di colpa, quando gli standard performativi non sono stati conseguiti oppure in situazioni di inadempienza o di sgarro rispetto ai ritmi solitamente sostenuti. É quello che succede nel corso di allenamenti sportivi, di prestazioni lavorative, di discipline autoimposte (come le diete), cioè di attività che richiedono sacrifici e rinunce, alle quali ci si sottopone volontariamente per raggiungere determinati risultati. In tutti questi casi è sempre mentalmente in agguato il controllo compulsivo e l′aumento dell′ansia, quando i risultati non confermano le aspettative. La questione riveste un′importanza fondamentale, perché lo sforzo, la fatica e le rinunce, elementi sempre presenti ogni volta che si intendono raggiungere i risultati prefissati, richiedono grande perseveranza e disciplina mentale; spesso vengono esercitati attraverso ritmi massacranti, che mettono a dura prova la volontà e la determinazione. La pressione del risultato agognato e lo sforzo per raggiungerlo spingono nella direzione di un controllo compulsivo - che si attiva automaticamente, senza bisogno di una decisione consapevole - sulla performance, sulla prestazione. La ricaduta di un simile atteggiamento consiste nella pseudo convinzione che nella vita siano sufficienti motivazione + determinazione + disciplina ferrea + autocontrollo per arrivare a qualsiasi risultato. Quando invece...il caso, l′incertezza, eventi imprevisti possono costringere a deviazioni improvvise rispetto ai propositi e agli obbiettivi prefissati, facendo cambiare l′orientamento del clinamen programmato in direzioni impensabili. Quindi, in conclusione, maggiore o minore controllo?

86) Nel presente contesto, il controllo fa riferimento alla capacità di autoregolarsi, di gestire emozioni, impulsi o risorse per adattarsi alle circostanze, in vista di raggiungere determinati obbiettivi, per regolare o influenzare situazioni, comportamenti e atteggiamenti, in modo da guidarli e modificarli in base ai propri scopi o interessi. É fuori discussione che, così inteso, il controllo è associato al senso di sicurezza, di prevedibilità o di stabilità nelle relazioni o nelle circostanze della vita, di padronanza sulle scelte e sulle decisioni, il che si traduce in senso di autorevolezza e di potere personale. Qualcosa però sfugge sempre al controllo, si sottrae ad esso, lo aggira e in questo venir meno tradisce o fa emergere la debolezza, la fragilità dell′impianto. Hic rebus stantibus, la risposta alla domanda, nella parte finale del punto precedente, non può rimandare a una scelta manichea tra due opzioni contrapposte, quanto piuttosto all′atteggiamento appropriato da tenere tra maggiore o minore controllo: vale a dire, ancora una volta, il distacco, la non identificazione nelle proprie scelte o decisioni, la prudenza nell′agire e soprattutto, il lasciar scorrere, il lasciare andare, il far defluire. Questa soluzione si scontra però con l′innata tendenza umana all′attaccamento. Se il legame di attaccamento, con i suoi processi di identificazione nelle figure genitoriali, è indispensabile nei primi anni di vita per garantire uno sviluppo emotivo, affettivo e cognitivo equilibrato, - diventa altrettanto indispensabile, una volta compiuto il percorso e stabilizzata la personalità, compiere il cammino inverso di distacco dal sé infantile e di disinvestimento dalle figure genitoriali, di separazione, cioè dal proprio ego. Questa posizione non equivale a una scelta a favore di un minore controllo, ma al superamento sia dell′alternativa in quanto tale, sia anche dell′illusione che gli effetti di un controllo più o meno accentuato possano garantire risultati certi.

87) A questo punto potrebbe sorgere il dubbio - riguardo al vivere il distacco, la disidentificazione, la mancanza di punti di riferimento, il disinvestimento, così come al lasciar scorrere e il lasciar andare - se tutto questo è possibile, è realizzabile, oltre che auspicabile oppure se sarà destinato a rimanere una pia intenzione, un desiderata utopico e irraggiungibile! La questione sfiora il paradosso, in quanto una disciplina personale orientata nel senso sopra esposto sarebbe a tal punto di ardua attuazione da richiedere, più che una convinzione dettata da un ragionamento, una fede talmente radicata e forte da impegnare full time la volontà nello sforzo per il raggiungimento dell′obiettivo auspicato. Nel presente ′baedecker′ terapeutico le risposte alle domande non possono però dipendere da un sapere fondato sul credere e sulla fede; devono fare affidamento sul pensiero e sul ragionamento. Ma sia la fede che il ragionamento rimandano entrambe a scelte di vita contrapposte, decisioni prese e maturate personalmente nel corso dell′esistenza o condizionate da un determinato contesto di apprendimento. É quindi sulla scelta di vita, che in questo caso riguarda sia il credere che il pensare, che è inevitabile puntare per rispondere al dilemma, relativo alla possibilità o meno che il distacco e la mancanza di punti di riferimento possano trovare una possibile realizzazione oppure debbano rimanere nel limbo dei desiderata irraggiungibili.

88) Prendere una decisione, fare una scelta è un processo psicologico complesso, che prevede diversi passaggi: identificare il problema; definire l′obbiettivo da raggiungere; raccogliere informazioni pertinenti e essenziali per prendere una decisione informata; pianificare i passaggi necessari; valutare le conseguenze, analizzando i pro e i contro; rivedere il processo operando all′occorrenza gli eventuali aggiustamenti. Questo procedimento si riferisce a decisioni circostanziate, che si prendono nella vita quotidiana; non riguarda scelte di vita assolute e incondizionate (come, ad esempio, l′impegno a favore della fede o del ragionamento), per le quali i riferimenti esegetici sono diversi, perché coinvolgono l′esistenza e la qualità della vita, non risoluzioni contingenti. La decisione esistenziale in favore della fede o del ragionamento - scelte antitetiche solo in parte, dal momento che hanno in comune sia il credere che il pensare, che costituiscono componenti fondamentali di entrambe - coinvolge aspetti soggettivi, identitari, valoriali, i quali chiamano in causa il vissuto culturale, famigliare, ambientale della persona, oltre che la sua predisposizione mentale verso la fede o il ragionamento. Da considerare comunque la reversibilità in ogni momento delle scelte, il possibile passaggio, in qualunque istante della vita, dalla decisione in favore della fede a quella in favore del pensiero o del ragionamento e viceversa; le situazioni cambiano e con esse le percezioni, i desideri, le convinzioni, le inclinazioni personali, gli ambienti di vita, le priorità. Di immutabile e irreversibile, nel corso della vita, non rimane pressoché nulla, se non il comune destino, vale a dire la morte.

89) La morte è un evento, ineluttabile, inesorabile; il pensiero della morte, vissuto con paura, ansia e preoccupazione, è un tormento, evitabilissimo, a patto che sia vissuto con lucidità e spirito di adattamento. Accettare l′ineluttabilità della morte non è un′opzione tra le altre, è una scelta inevitabile, perché alla morte non c′è scelta! Non è una scelta piacevole, come non è piacevole essere costretti a una scelta, quando non c′è alternativa. Può essere un pensiero angosciante, quando è associato alla perdita della vita, alla perdita irreversibile di tutto; può essere un pensiero consolante, nei casi in cui la vita è un tormento insopportabile, di cui si aspetta la fine come una liberazione. In entrambi i casi, il credente confida nella continuazione della vita oltre la morte, anche se in modalità del tutto differenti; mentre il pensante accetta l′inevitabilità della morte come un evento naturale, da cui nessun vivente si può sottrarre e si preoccupa caso mai della qualità della vita che gli rimane. Ma, tra una scelta forte e chiara nei confronti della fede e una decisione con caratteristiche analoghe nei confronti del pensiero e del ragionamento, esiste una terza posizione, effetto, il più delle volte, di una decisione non presa, cioè della mancanza di una scelta, fatta di un credere o di un pensare contrassegnato dal dubbio, dall′incertezza, dal sospetto. Gli interpreti, i testimoni di questa posizione vivono il pensiero della morte con angoscia e disperazione, nella loro mente nessun conforto, nessuna speranza, anche se la mancanza di certezze rimanda a una tradizione filosofica e letteraria, la cui importanza va molto al di là dell′atteggiamento psicologico.

90) Le ragioni del dubbio, la scuola del sospetto, l′età dell′incertezza: tutte espressioni dal significato pressoché analogo, che fanno riferimento a orientamenti di pensiero (riconducibili, secondo Paul Ricoeur, alle riflessioni di Marx, Nietzsche, Freud), che, tra la fine dell′Ottocento e i primi decenni del Novecento, hanno rovesciato il tradizionale impianto filosofico delle ′scienze umane′, ponendo la basi del moderno modo di pensare. Uno degli insegnamenti, tra i tanti, emersi dal sovvertimento del paradigma culturale di cui sopra, riguarda il principio secondo il quale la mente umana è suscettibile alla narrativa che la circonda e che la nutre, condizionamento cosciente solo in minima parte. Questa narrativa - disomogenea, contradditoria, faziosa, interessata, un intreccio di verità parziali e di fake news - costituisce una potente istigazione al dubbio, al sospetto, all′incertezza. Ma anche all′ansia, allo stress, all′inquietudine! Conoscere i motivi che suscitano e alimentano l′ansia aiuta a eliminare o almeno a circoscrivere, a ridurre i suoi effetti deleteri? La risposta è no o almeno non del tutto; il ′verum scire est per causas scire′ non funziona a questo livello, perché l′oggetto e il soggetto del problema (l′ansia) coincidono! É quindi necessaria un′operazione di scorporamento dell′oggetto del problema da parte del soggetto, una presa di distanza, una dis-trazione (nel senso etimologico del termine: dis-trahere = trarre, tirare in direzioni diverse) da esso; il che significa sostanzialmente che una parte del sé ingaggia, intraprende una lotta contro un′altra parte del sé medesimo, con lo scopo di eliminarla! Come se la parte del sé, contagiata dall′ansia, fosse un corpo estraneo da estirpare per il benessere dell′intero organismo!