73) Il principio di Protagora che "l′uomo è la misura di tutte le cose" riveste un′attualità straordinaria, in quanto ribadisce l′importanza psicologica del saper ′misurare′, non nel senso quantitativo, ma qualitativo del termine, essere cioè in grado di stimare, soppesare, assegnare un valore alle cose, a qualsiasi cosa, possedere la capacità di determinarne la rilevanza. Il che significa sottoporre al giudizio non solo opinioni e atteggiamenti, ma tutto quello che in qualche modo ha a che fare con noi; non dare per scontato niente, meno che mai l′insieme dei significati universalmente accettati, chiedere conto del senso e dell′importanza di ciò con cui entriamo in relazione, in un esercizio di perenne messa in discussione di tutto e di tutti, a partire da noi stessi! Tale atteggiamento comporta la convinzione e la consapevolezza che le regole e le leggi, così come i significati e i valori, sono sempre il risultato di decisioni storicamente determinate, prese da gruppi umani, guidati da interessi personali e da princìpi di parte. Tutto ciò che regola il mondo umano - abitudini/usanze/modi di sentire/di pensare, persino il linguaggio - ha un carattere convenzionale e tutto ciò che è convenzionale è storico, soggetto cioè al mutamento e alla trasformazione, in molti casi anche alla morte! Di assoluto non c′é nulla, se non appunto l′Assoluto!
74) Il concetto di eterogenesi dei fini, di cui ha parlato per primo Vico, chiarisce che le azioni umane possono promuovere il raggiungimento di fini diversi da quelli perseguiti dai soggetti che compiono l′azione; ciò avverrebbe per il sommarsi delle conseguenze e degli effetti secondari dell′agire, che potrebbe modificare gli scopi originari e far nascere nuove motivazioni, di carattere non intenzionale. Il che significa che un′azione cattiva può portare a un risultato buono e viceversa, in quanto appunto l′esito di un′azione può essere diversa dal motivo per cui è stata generata. Questa dissociazione tra l′effetto provocato da un′azione e l′intenzione che ne era alla base, cioè appunto l′eterogenesi dei fini, vale per la storia e per i popoli, come aveva intuito Vico, ma anche per gli individui, i quali, compiendo azioni finalizzate al benessere o all′utilità personale, anche a scapito dell′interesse o del benessere del prossimo o addirittura contro le regole e le leggi del convivere civile, producono effetti che possono determinare condizioni di benessere o di utilità per gli altri, come se una ′mano invisibile′ (Adam Smith) avesse guidato le loro azioni. Allo stesso modo, azioni nate e concepite con le migliori intenzioni e i migliori propositi, possono produrre effetti negativi o addirittura devastanti sugli altri o sull′intera comunità. La consapevolezza di una possibile divergenza e contrapposizione, insita nel rapporto causa-effetto, paradigma fondamentale del sapere filosofico e scientifico a partire da Aristotele (′verum scire est scire per causas′), risulta eticamente e psicologicamente alquanto difficile da accettare! Nello stesso tempo, la possibile mancanza di certezza e la discrezionalità riguardo alla cogenza di tale rapporto può avere effetti perversi sul senso di responsabilità, in riferimento all′agire personale; oppure provocare effetti ansiogeni. Tuttavia, la capacità di ′misurare′, nel senso evidenziato nel punto precedente e la consapevolezza della irresponsabilità personale nei confronti della mano invisibile, che potrebbe determinare una eterogenesi dei fini relativamente al proprio agire, dovrebbero costituire un atteggiamento appropriato nei confronti dell′ansia e dello stress psicologico, che la condizione di incertezza, riguardo alla connessione causa-effetto, rischia di generare. Senza, beninteso, che questo comporti atteggiamenti indulgenti, autoassolutori o deresponsabilizzanti nei confronti del proprio agire.
75) Nel confronto dialettico tra le persone, soprattutto quando c′é disaccordo a proposito di discussioni su argomenti ideologici (politici, religiosi, etici, estetici, ecc.) o visioni del mondo, spesso gli interlocutori fanno ricorso all′′argumentum ad hominem′ o ′ad personam′, una strategia retorica consistente nel contestare e in molti casi demolire non le argomentazioni dell′avversario, ma l′interlocutore stesso come persona, col risultato che il tema del dibattito non viene affrontato. Come fallacia logica, l′′argumentum ad hominem′ è universalmente usato in ambito politico per screditare l′avversario, attraverso tecniche dilatorie e fuorvianti, tendenti a falsificare le sue argomentazioni o a farle apparire addirittura ridicole, con lo scopo di convincere e manipolare l′opinione pubblica, per ottenere consensi e potere. Ma il suo uso è molto frequente anche in ambito intersoggettivo, dove l′ambizione e la determinazione ad aver ragione risulta spesso cruciale: gli interlocutori ricorrono infatti all′′argumentum ad personam′, per raggiungere facilmente tale risultato, in una sfida in cui, invece di controbattere gli argomenti dell′interlocutore, lo si attacca personalmente, screditandolo, minacciandolo o deridendolo. Che il voler avere ragione risulti spesso la meta più ambita nel confronto intersoggettivo e nelle relazioni più profonde, al cui altare viene sacrificato tutto il resto, amore e amicizia compresi, - è il segno che l′importanza universale dell′ego surclassa sempre e in ogni caso il valore del noi; è la dimostrazione che anche nei rapporti famigliari più stretti impera sotto traccia la guerra di tutti contro tutti, il bisogno di sentirsi confermati e l′incapacità di vivere la disconferma, come risulta evidente dai tragici effetti che può provocare un disaccordo argomentativo, anche tra persone molto intime.
76) Riflettendo sul punto precedente e in conformità con l′impostazione delle presenti considerazioni, orientate a individuare soluzioni e non soltanto a offrire interpretazioni - alcune domande sorgono spontanee ed esigono delle risposte: come risolvere il problema del bisogno di conferme, dimostrato dalla preoccupazione (per non dire dall′accanimento) personale a voler avere sempre ragione, che nelle relazioni affettive spesso prevale sul sentimento e sull′importanza della relazione stessa? In che modo è possibile trascendere il vissuto emotivo e affettivo, diacronicamente sedimentato nella costruzione della personalità, imperniato sul desiderio spasmodico di riconoscimento, sul bisogno di conferme e sull′incapacità di accettare la disconferma? Perché è così difficile riconoscere/ammettere di avere torto, soprattutto nel focus di un confronto/scontro su posizioni divergenti? La componente emotiva della personalità, attorno alla quale è intrecciata l′identità personale, cioè l′ego, reagisce in modo talmente risoluto quando l′identità personale corre il pericolo di essere messa in discussione, che può arrivare a sacrificare, sull′altare della propria conservazione, legami e relazioni molto importanti, come accade frequentemente nel rapporto tra genitori/figli, marito/ moglie, fratello/sorella. Svariati motivi possono essere addotti riguardo al perché la natura umana reagisca in tale modo nella succitata situazione, adeguatamente spiegati anche da ChatGPT. Qui si tratta però di enucleare una possibile via d′uscita a tale situazione, senza che abbia le caratteristiche del ′vorrei ma non posso′! Beh, una via d′uscita definitiva non esiste, la natura umana è questa e....natura non facit saltus! Però è sempre possibile adottare un atteggiamento che quantomeno si avvicini a una possibile soluzione: sembra che una indicazione in questo senso possa venire dalla psicologia buddista, i cui principi fondamentali sono impostati sul distacco da sé stessi; sulla consapevolezza dell′impermanenza di tutti gli aspetti dell′esistenza; sulla natura transitoria delle esperienze umane e infine sulla compassione verso sé stessi e gli altri. La consapevolezza e l′assimilazione dei suddetti principi potrebbe infatti avere un effetto straniante sul bisogno personale di riconoscimento e di conferme e quindi indurre una più duttile capacità di accettazione della disconferma o del disconoscimento.
77) Secondo la terapia cognitivo comportamentale (Cognitive-Behaviour Therapy, CBT) i pensieri producono emozioni, le emozioni creano comportamenti, i quali a loro volta rafforzano i pensieri: i disturbi psicologici verrebbero spiegati - attraverso l′analisi della complessa relazione tra pensieri, emozioni e comportamenti - come il prodotto di credenze disfunzionali che si mantengono nel tempo. La teoria di fondo sottolinea l′importanza delle distorsioni cognitive e delle rappresentazioni soggettive della realtà, aspetti che, malgrado la sofferenza sperimentata dal paziente, convergono nel produrre schemi di mantenimento dei disturbi emotivi e comportamentali. Ciò implica che non sarebbero gli eventi a creare e ad alimentare i problemi psicologici, emotivi e comportamentali, ma questi verrebbero piuttosto largamente influenzati dalle strutture e costruzioni cognitive dell′individuo (assunto concepito originariamente dal filosofo stoico Epitteto). La terapia cognitivo-comportamentale si propone, di conseguenza, di aiutare i pazienti ad individuare i pensieri ricorrenti e gli schemi disfunzionali di ragionamento e d′interpretazione della realtà, al fine di sostituirli e/o integrarli con convinzioni più funzionali. Questo schema presuppone un′attitudine quotidiana al pensiero e al ragionamento, la cui logica si fonda su principi che è necessario apprendere per imparare a ragionare; una disponibilità personale a stimolare la mente nei modi più disparati (uno dei più efficaci rimane sempre la lettura), il che comporta curiosità mentale e predisposizione nei confronti del cercare e dell′imparare nel campo del sapere; la tendenza a interrogare le paure e tutto ciò che la mente vive con apprensione, come modalità auto terapeutica per affrontare l′ansia. Si è già visto, nel punto 7, come l′attitudine a interrogare paure, preoccupazioni, ansie costituisca la strada maestra non solo per portare il vissuto emotivo nel campo del razionale, ma anche per approfondire la conoscenza del proprio limite e la consapevolezza delle proprie potenzialità, di ciò che possiamo e non possiamo fare.
78) Che cosa significa imparare a ragionare? In che cosa consiste il ragionamento, qual è la sua logica? Ragionare significa tante cose: cercare leggi e principi che spiegano il verificarsi dei fenomeni, prendere decisioni, risolvere problemi, porsi domande, scegliere una linea di comportamento, fornire spiegazioni o motivazioni, esprimere giudizi, fare valutazioni e altro ancora. É un procedimento mentale di carattere operativo attraverso il quale qualcosa - appartenente a dati/informazioni di varia natura - viene dimostrato, affermato, negato, valutato; ciò consente di poter prendere decisioni, scegliere, agire e interagire con la complessità del mondo, schierarsi, confrontarsi, relazionarsi. La caratteristica strumentale del ragionamento va di pari passo con l′aspetto apofantico/esplicativo, in base al quale ciò che viene affermato o negato è molto spesso accompagnato, dimostrato, giustificato da spiegazioni. Il ragionamento costituisce infatti una specie di percorso mentale, che, da un insieme di dati o informazioni (le premesse), porta a una conclusione, che deriva, in modo necessario o contingente, dalle premesse. La differenza stabilita da Aristotele tra ragionamenti deduttivi e induttivi riguarda proprio il rapporto tra premesse e conclusione: per quanto riguarda i primi, il legame ha carattere di necessità, nei secondi invece le premesse forniscono evidenze più o meno forti a sostegno della conclusione, ma non ne garantiscono necessariamente la verità, in quanto la conclusione contiene affermazioni che non sono implicite nelle premesse, che vanno al di là di esse. Come, in che modo si formano le valutazioni, i giudizi che vengono affermati/negati/dimostrati/confutati/spiegati e la cui espressione costituisce la stoffa del ragionamento? Essenzialmente attraverso la trasmissione mimetica, l′ influenza sociale, il condizionamento culturale, famigliare, ambientale o amicale, il sentito dire o anche attraverso la consuetudine a interrogare e a interrogarsi, cioè il ragionamento e il pensiero critico. Quest′ultimo aspetto è indubbiamente il più fecondo, perché impostato sull′attività originale e produttiva della mente, non sulla pressione operativa dell′ambiente e sulla rielaborazione pedissequa di concetti appresi. Il fare/farsi delle domande non è infatti finalizzato soltanto all′ottenere informazioni, ma anche (e soprattutto, nel caso in questione) al mettere in discussione conoscenze apprese e possedute, al non dare per scontato niente di ciò che riguarda il sapere tradizionale. Si tratta di agire nel medesimo modo impiegato da Francesco Bacone riguardo agli "idoli che assediano la mente umana": gli idola tribus, specus, fori, theatri, cioè le false nozioni e i pregiudizi che possono derivare dalla natura umana in quanto tale, dall′individuo singolarmente preso, dal contatto con gli altri o dal loro condizionamento e infine dall′influenza di ideologie o modi di pensare. Il che comporta innanzitutto individuare i diversi tipi di idola, chiedere conto del loro valore e significato, eliminarne gli aspetti ingannevoli, in modo tale da predisporre la mente - una volta liberata dalle fallacie - a nuove e più produttive conoscenze.
79) Ragionare equivale quindi a mettere in discussione tutto, anche e soprattutto le proprie convinzioni, operare collegamenti, trarre inferenze, focalizzare argomenti, scomporre problemi, trovare soluzioni, sviscerare temi, enucleare sintesi e tanto altro. In questo lavoro, cognitivo e psicologico, sono da evitare sia l′identificazione con pensieri e convinzioni, a favore di un atteggiamento di fluidità e apertura mentale, sia il conformismo delle opinioni, cioè il convincersi di qualcosa solo perché è di dominio pubblico (gli idola theatri di Bacone), a vantaggio di un atteggiamento di ricerca personale e di messa in discussione radicale e incondizionata. L′inferenza costituisce indubbiamente il processo cardine del ragionamento, la differenza riguarda il rapporto tra premesse e conclusione. Nel ragionamento deduttivo la verità delle premesse garantisce la verità della conclusione, in quanto la conclusione esplicita ciò che è contenuto, implicitamente, nelle premesse. Però tale tipo di ragionamento non permette di scoprire o prevedere fatti nuovi e quindi di ampliare le conoscenze. Il salto dal noto all′ignoto viceversa è consentito dai ragionamenti induttivi, attraverso i quali è possibile formulare ipotesi e previsioni riguardo a ciò che non è conosciuto, in base a ciò che è noto, anche se essi comportano il rischio di pervenire a conclusioni false, pur partendo da premesse vere. La forma più comune di induzione è la generalizzazione, attraverso la quale si possono ottenere informazioni su un gruppo/un insieme/una generalità di cose, persone, eventi, oggetti, esaminando una porzione, un campione di quel gruppo; un altro tipo di induzione è il ragionamento per analogia, che consiste nel trarre informazioni su qualcosa, in base alle sue somiglianze con qualcos′altro. La forza di una affermazione, vale a dire la sua capacità di sostenere una conclusione, può essere misurata/valutata attraverso il calcolo probabilistico. La probabilità induttiva, ossia la probabilità che la conclusione sia vera se le premesse sono vere, è una strategia logica fondamentale, tesa a determinare quanto sia ragionevole credere in una conclusione sulla base delle premesse disponibili. Essa consente di formulare previsioni sul futuro in base alla conoscenza del passato e del presente, anche se niente garantisce che il futuro assomigli o riproduca il passato. Eventualità questa che non elimina la necessità psicologica (umana, troppo umana) di formulare congetture e previsioni su ciò che accadrà (il non conosciuto), a partire dai dati della esperienza personale (il noto)!
80) Da quanto argomentato finora, è indispensabile tenere presente che ragionare presuppone un′intenzionalità, cioè una predisposizione mentale, soggettivamente orientata a un′etica del ragionamento, che antepone la ricerca della verità, attraverso il confronto, alla volontà di avere ragione. La verità di un ragionamento - supposto che sia legittimo accostare verità e ragionamento - non ha a che vedere con gli argomenti usati per esprimerlo, ma con la coerenza logica e con l′attendibilità intrinseca attraverso la quale vengono espressi; vale a dire con la concatenazione degli argomenti, con la veridicità e la congruenza del costrutto. In questa prospettiva, l′intenzionalità - nel senso che la Psicologia della Gestalt assegna al termine, come caratteristica della coscienza di rapportarsi a un oggetto, di tendere verso qualcosa, di trascendersi - può servire per rendere esplicita l′attitudine al ragionamento, anche se non può garantire la predisposizione etica verso la verità del medesimo, che dipende invece dalla determinazione personale a perseguire i suoi sviluppi logici, a prescindere dalla volontà di avere ragione. Psicologicamente parlando, l′esigenza di avere ragione, nel corso di una discussione, esprime il bisogno di essere confermato, il quale a sua volta - come sempre nel caso del bisogno - tradisce la mancanza, uno stato di privazione; mentre la predisposizione per l′eticità del ragionamento rimanda invece al desiderio di conoscere e di apprendere, alla volontà di sapere, che esprime forza mentale, curiosità, spirito di ricerca, capacità di distacco da un sé narcisista o in stato di necessità. É comprensibile che durante un confronto, una discussione tra interlocutori che sostengono posizioni divergenti, ognuno cerchi essenzialmente di difendere le proprie convinzioni, cioè di avere ragione, di non soccombere, anziché perseguire innanzitutto l′eticità del ragionamento. Però i due atteggiamenti non sono incompatibili, a patto che l′intenzionalità degli interlocutori veda nel confronto dialettico un′opportunità di stimolo mentale, di nuove acquisizioni, di prospettive inesplorate, piuttosto che l′occasione di una competizione agonistica.